Le malattie trasmesse dall’acqua sono uno dei maggiori problemi di sanità pubblica a livello mondiale, ma la loro incidenza è difficile da stimare per la diffusa sottonotifica. I sistemi di sorveglianza possono sì contribuire all’acquisizione ed integrazione delle conoscenze necessarie all’identificazione degli agenti etiologici emergenti, delle popolazioni a rischio e delle epidemie, ma dovrebbero ancor più fornire fondatezza scientifica alla valutazione delle priorità in campo di sicurezza ambientale anche in funzione dell’allocazione più razionale delle risorse.
La lista dei microrganismi che possono provocare malattie veicolate dall’acqua è ampia e vasta è anche la gamma delle patologie da essi provocate.
Di seguito verranno passati in rassegna, oltre ad alcuni microrganismi ambientali, anche alcuni tra i più importanti organismi segnalati, nei Paesi occidentali, come patogeni potenzialmente trasmissibili attraverso l’acqua, focalizzando l’attenzione sulle loro caratteristiche morfologiche, biochimiche e di funzione, sulla sintomatologia delle malattie associate ad essi e sulla risposta a fattori ambientali e di trattamento delle acque.
Batteri Aeromonas spp.
Aeromonas spp. è un batterio ambientale Gram-negativo, non sporigeno, aerobio facoltativo. È diffuso in acque superficiali, dolci e marine e anche nel suolo e sulla vegetazione.
La tassonomia del genere è in continua evoluzione per quanto riguarda il rilievo delle caratteristiche fenotipiche e delle proprietà genetiche. Finora è stata accertata l’esistenza di 18 gruppi di ibridizzazione non tutti distinguibili su base biochimica. La classificazione tradizionale riporta la distinzione tra Aeromonas salmonicida, specie psicrofila non motile e patogeno dei pesci, e A. hydrophila, A. sobria, A. caviae, A. veronii e A. schubertii, specie mesofile.
Nei climi temperati Aeromonas spp. può moltiplicarsi in acqua se vi è un sufficiente apporto di nutrienti. Come Legionella, è presente nelle acque destinate al consumo umano generalmente in basse concentrazioni, ma può moltiplicarsi nei sistemi di distribuzione delle acque per la capacità di crescere in condizioni di oligotrofia. La sua presenza non è correlata a quella degli indicatori di contaminazione fecale che quindi non sono in grado di segnalarlo. Questa nota caratteristica è stata, di recente, anche messa in evidenza in uno studio condotto su risorse idriche italiane: su oltre 7000 campioni d’acqua analizzati in 3 anni, più del 20% è risultato positivo per Aeromonas spp., senza però che ci sia stato un riscontro tra la concentrazione di questi microrganismi e quella degli indicatori di contaminazione fecale.
L’entità dello sviluppo in rete varia considerevolmente in base alla disponibilità di nutrienti, al tempo di permanenza in rete e alla temperatura dell’acqua. È stato riscontrato che la moltiplicazione di Aeromonas è proporzionale alla formazione potenziale di biofilm nelle condutture dell’acqua. Questa relazione tra ricrescita di Aeromonas e presenza del biofilm è alla base dell’impiego, in Olanda, di questo microrganismo come indicatore delle potenzialità di ricrescita batterica nelle reti (valore guida 200 cfu/100 ml).
Il possibile ruolo delle acque potabili come via di trasmissione dell’infezione da Aeromonas spp. è ancora in discussione, anche se è ormai noto che alcune fenospecie di Aeromonas sono in grado di produrre differenti fattori di virulenza, come tossine extracellulari, citotossine ed
enterotossine. Aeromonas hydrophila è stato riconosciuto come potenziale agente di AGI, setticemie, coliti e meningiti. Questo microrganismo è stato anche frequentemente isolato da infezioni di ferite venute in contatto con acqua inquinata.
I dati più recenti, tuttavia, non confermano né smentiscono le potenzialità degli Aeromonas come enteropatogeni. Infatti, dosi infettanti variabili tra 107 e 1010 hanno dato luogo, in maniera incongrua, a gastroenteriti nell’uomo e le stesse frequenze di isolamento di Aeromonas spp. sono state osservate in adulti sintomatici e asintomatici. Tuttavia, diversamente da quanto messo in luce da studi precedenti, indagini di tipizzazione eseguite anche su ceppi isolati in Italia non hanno rilevato alcuna correlazione tra gli stipiti ottenuti da pazienti affetti da gastroenterite da Aeromonas hydrophila e i ceppi presenti nelle risorse idriche. Tuttavia, questi batteri vengono frequentemente isolati dall’acqua potabile, come rilevato anche da studi svolti in Italia, soprattutto in relazione a specifiche condizioni stagionali e climatiche e di trofia delle acque.
Campylobacter
I batteri appartenenti al genere Campylobacter si presentano sotto forma di bastoncelli sottili, ricurvi (0,2-0,5 μm di diametro) e talvolta spiralati, sporigeni; Gram-negativi, mobili e microaerofili richiedono, per la crescita, concentrazioni di O2 variabili tra 3 e 15% e di CO2 tra 3 e 5%. Non fermentano e non ossidano carboidrati, come fonte di energia non utilizzano carboidrati ma amminoacidi o composti intermedi del ciclo degli acidi tricarbossilici. In genere sono sensibili a molti antibiotici, ma scarsamente alla penicillina.
Nel genere sono classificate 16 specie e sei subspecie. C. jejuni (subspecies jejuni) e C. coli sono considerate le maggiori responsabili di malattie nell’uomo. Anche C. laridis e C. upsaliensis sono considerati patogeni umani, ma meno frequentemente sono segnalati come responsabili di casi di malattia.
Il genere Campylobacter comprende microrganismi associati a molte specie di animali a sangue caldo, sia domestici sia selvatici, e a frutti di mare. L’infezione, una zoonosi, anche asintomatica, può manifestarsi, sebbene raramente, in numerosi mammiferi (bovini, ovini, suini, cani e gatti); nell’uomo sono state descritte numerose epidemie in relazione a contaminazione di alimenti e di acque ad uso potabile, soprattutto in Paesi del Nord Europa e in Usa.
La principale via di trasmissione è ritenuta quella alimentare, attraverso l’ingestione di carne poco cotta o latte contaminati ma anche l’acqua è riconosciuta come serbatoio di infezione.
Campylobacter è segnalato dall’Oms come principale causa di malattie diarroiche nell’uomo e considerato l’agente batterico più comunemente responsabile di gastroenteriti nel mondo. Nell’anno 2005 nell’Unione Europea, la campylobatteriosi è risultata la patologia zoonotica più frequente nell’uomo, con un aumento del 7,8% rispetto all’anno precedente; l’incidenza stimata è stata di 51,6 casi per 100,000.
La patogenicità di Campylobacter è legata a vari fattori. La motilità del microrganismo favorisce la sua penetrazione nello strato di muco che ricopre l’epitelio intestinale; inoltre, diverse adesine e gli stessi flagelli favoriscono l’attacco alle cellule epiteliali.
L’infezione sostenuta da Campylobacter spp. dà luogo ad enterite acuta caratterizzata da febbre alta e persistente, diarrea (inizialmente acquosa e successivamente sanguinolenta) e violenti crampi addominali. Si manifesta sporadicamente o in piccoli episodi epidemici a carattere familiare; non mancano però segnalazioni di epidemie. Può essere letale in individui immunodepressi.
In associazione alla malattia sono state segnalate complicazioni, come batteriemie, epatiti, pancreatiti e aborto, e, in post-infezione, artriti, disordini neurologici come la sindrome di Guillain-Barré, e forme di paralisi associate a disfunzioni respiratorie e neurologiche.
L’acqua svolge un ruolo importante nell’ecologia del microrganismo che può essere isolato con elevata frequenza da acque dolci, soprattutto nei mesi invernali, per la più alta capacità di sopravvivenza del batterio alle basse temperature. Come verificato da studi svolti in Italia, anche Campylobacter può entrare a far parte del biofilm e trovarsi nella condizione VNC e, negli alimenti, sopravvive anche a 4 °C. Tuttavia, è particolarmente sensibile alla disidratazione e a bassi valori di pH.
Escherichia coli
Escherichia coli appartiene alla famiglia delle Enterobacteriaceae ed è il più noto rappresentante della flora microbica intestinale dell’uomo e di molti animali a sangue caldo. È un microrganismo che di norma non è patogeno, da oltre un secolo considerato indicatore di contaminazione fecale dell’acqua e degli alimenti. Tuttavia, nell’ambito di questa specie sono stati distinti alcuni cloni che hanno acquisito patogenicità. Tra questi spiccano i cosiddetti ceppi enteroemorragici di E. coli (EHEC), il cui capostipite è rappresentato dal sierotipo O157:H7.
I ceppi EHEC sono anche detti verocitoproduttori e indicati con gli acronimi STEC e VTEC. In effetti, questi ceppi possiedono la capacità di sintetizzare tossine di tipo Shiga (Shiga-like toxins, o ST), dette anche verocitotossine (VT); si tratta di potenti esotossine simili alla vera e propria tossina “Shiga”, sintetizzata da Shigella dysenteriae 1 e in grado di indurre un danno irreversibile quando inoculate sperimentalmente su monostrati di cellule VERO.
I ceppi VTEC, e in particolare E. coli O157, causano patologie grazie alla sintesi di due importanti fattori di aggressione: l’intimina e le verocitotossine (VTs). L’intimina è una proteina adesiva in grado di determinare particolari lesioni nelle cellule intestinali (enterociti), mentre le VTs, proteine sintetizzate da geni veicolati da batteriofagi, sono responsabili dei quadri sintomatologici più gravi, come la colite emorragica (CE) e la sindrome emolitico uremica (SEU).
Oltre a E. coli O157:H7, altri sierotipi, come O26:H11, O111:H8, O104:H21, sono stati implicati in focolai e casi sporadici di infezione. Da uno studio condotto recentemente in Italia, che ha preso in considerazione i casi di infezione da VTEC dal 1988 al 2002, è emerso che i sierotipi principalmente coinvolti nei casi di SEU sono O157, O26, O111, O145 e O103. La fascia di popolazione più colpita è risultata quella pediatrica (1-6 anni).
La prima epidemia associata alla presenza di questo microrganismo nelle acque potabili è stata segnalata in Missouri, USA, nel 1989 e interessò più di 240 persone, con 32 ricoveri in ospedale e 4 morti. L’origine della contaminazione non è stata identificata con chiarezza, ma è stato ipotizzato che sia stata causata da una rottura verificatasi nella rete di distribuzione dell’acqua.
La più grande epidemia nota causata da E. coli O157:H7 ha avuto luogo a Walkerton in Ontario, USA, nel 2000 e ha interessato più di 2000 persone. L’indagine epidemiologica attribuì l’epidemia all’acqua potabile. Venne individuata quale possibile causa l’inefficienza del trattamento di potabilizzazione in occasione di un periodo particolarmente piovoso che aveva determinato un notevole dilavamento del suolo, con aumento della torbidità dell’acqua in ingresso all’impianto. Fu anche dimostrata la presenza di fonti di contaminazione ambientale (es,. allevamenti e pascoli) che avevano contribuito all’inquinamento della fonte di approvvigionamento idrico.
E. coli non risulta particolarmente resistente ai trattamenti di potabilizzazione e viene inattivato dalle comuni concentrazioni di cloro e derivati. Esistono numerose varianti fenotipiche del sierotipo O157:H7 che possono avere un considerevole impatto sui metodi di ricerca di questi patogeni. Infatti, nonostante la presenza di E. coli O157:H7 nelle acque sia frequentemente suffragata da evidenze epidemiologiche, è spesso complesso isolare questo
ceppo dall’acqua. Le difficoltà analitiche possono essere attribuite alla sensibilità limitata dei metodi microbiologici tradizionali. Risultati migliori sono stati ottenuti con metodi molecolari anche se è necessario considerare che, anche se questi metodi mostrano una elevata sensibilità e specificità, e permettono di distinguere le diverse varianti fenotipiche, non è pensabile, al momento, utilizzarli come metodi per il controllo di routine.
Helicobacter
Helicobacter pylori, precedentemente noto come Campylobacter pylori, è stato riconosciuto come patogeno umano nel 1983 e come carcinogeno di gruppo 1 nel 1994.
Sono state individuate due forme morfologicamente distinte del batterio, una forma a piccola spirale e una coccoide, finora non coltivabile che non è stato ancora chiarito se sia VNC, e quindi capace ancora di provocare l’infezione.
H. pylori è stato isolato dall’ambiente e dall’acqua con metodi di microscopia a fluorescenza e tecniche molecolari. In condizioni sperimentali, il microrganismo si è dimostrato capace di sopravvivere da alcuni giorni fino ad alcune settimane in acqua di fiume sterile, soluzione salina e acqua distillata a vari livelli di pH e a temperature variabili da 4 °C a 15 °C. Questi risultati fanno ipotizzare che l’acqua possa essere una fonte potenziale di trasmissione di H. pylori.
L’infezione da H. pylori è stata associate a gastriti, ulcere duodenali e ad un’aumentata incidenza di adenocarcinoma gastrico. Il microrganismo colonizza la mucosa gastrica e provoca un’infezione cronica associata ad una risposta infiammatoria. Si ritiene che la prevalenza dell’infezione da H. pylori nel mondo sia approssimativamente intorno al 50%, con una più elevata prevalenza nei Paesi in via di sviluppo (90%). L’infezione, nella gran parte dei casi, è acquisita durante l’infanzia. La dose infettante non è nota anche se si suppone sia bassa. Dei soggetti che hanno acquisito l’infezione, solo una percentuale relativamente bassa (6-20%) sviluppa una malattia gastroduodenale e circa l’1% avrà una diagnosi di tumore gastrico.
Non è ancora ben chiarito quale sia la via di trasmissione del batterio, anche se sembra che la trasmissione possa essere orale-orale o fecale-orale. Come fattore di rischio è stato anche ipotizzato il consumo di vegetali irrigati con acque reflue non trattate. Studi effettuati in alcuni Paesi in via di sviluppo hanno segnalato la possibilità che l’infezione da H. pylori sia associata a condizioni ambientali particolari, come scarsa igiene e consumo di acqua contaminata.
In generale, la via di trasmissione prevalente sembra dipendere dalla situazione, anche se, in molte circostanze, la trasmissione da persona a persona gioca un ruolo cruciale. Acqua ed alimenti sembrano avere un’importanza meno rilevante anche se giocano un ruolo significativo in condizioni di scarsa igiene.
Alcuni studi hanno evidenziato una relativa sensibilità ai comuni trattamenti di potabilizzazione delle acque. Analogamente ad altri batteri, H. pylori può essere rimosso dall’acqua utilizzando metodi fisici, come coagulazione, sedimentazione e filtrazione. È anche sensibile ai disinfettanti comunemente usati, anche se, rispetto a E. coli, è leggermente più resistente ai trattamenti con cloro e ozono. Tuttavia, se H. pylori entra nel sistema di distribuzione dell’acqua sembra difficile che le concentrazioni di cloro residuo, di solito presenti, siano in grado di eliminarlo.
Legionella
Rappresenta l’unico genere della famiglia delle Legionellaceae. Si tratta di un bacillo Gram- negativo, aerobio ed asporigeno, mobile per la presenza di uno o più flagelli. Una caratteristica strutturale peculiare di questo microrganismo è determinata dalla presenza di acidi grassi a catena ramificata che di solito non sono presenti negli altri Gram-negativi.
Dal punto di vista biochimico le legionelle non hanno alcuna capacità di fermentare gli zuccheri e mostrano inoltre una debole attività ossidasica e catalasica. La loro fonte nutritiva è determinata da alcuni aminoacidi quali cisteina, arginina, isoleucina e metionina.
Attualmente al genere Legionella appartengono 48 specie suddivise in 70 sierogruppi, di cui circa la metà risulta essere patogena opportunista.
Dei 14 sierogruppi appartenenti alla specie Legionella pneumophila, i sierogruppi dall’1 al 6 sono i maggiormente implicati nella patologia umana. L’infezione da Legionella può essere causata dalla diffusione di aerosol provenienti da torri di raffreddamento, impianti di climatizzazione e condensatori evaporativi, nonché da impianti di distribuzione di acqua potabile (soffioni delle docce, rubinetti), apparecchi sanitari, deumidificatori e fontane. Condizioni di rischio sono anche quelle associate a stabilimenti termali e vasche per idromassaggio.
Il serbatoio naturale di Legionella è l’ambiente idrico. I fattori che favoriscono la presenza di Legionella nell’acqua sono diversi e prevalentemente associati a condizioni di acqua stagnante o a flusso lento, a temperature comprese tra 25 °C e 45 °C, a pH compresi tra 5 e 8, all’uso di materiali e di accessori nella rete idrica che possono predisporre alla crescita, a presenza di sedimenti e di biofilm e di depositi che favoriscono anche la crescita di microflora commensale. In modo particolare, come osservato anche da studi svolti in Italia, il biofilm rappresenta un sito d’elezione per la presenza e la moltiplicazione di Legionella.
Il batterio è considerato il maggior responsabile di patologie a trasmissione idrica manifestandosi con due forme particolari: la legionellosi e la febbre di Pontiac. La prima si manifesta come una polmonite acuta – dopo un periodo di incubazione di 2-10 giorni, compaiono disturbi simil-influenzali – mentre la febbre di Pontiac è una patologia acuta autolimitante che non interessa il polmone.
La legionellosi può manifestarsi con fenomeni epidemici variabili che vanno da un cluster di esposizione nel tempo e nello spazio, ad una serie di casi indipendenti in aree ad alta endemia, a casi sporadici senza un evidente raggruppamento temporale o geografico. Focolai epidemici si verificano ripetutamente in ambienti collettivi a residenza temporanea, come ospedali ed alberghi. La maggior parte dei casi di polmoniti di origine comunitaria si manifestano nei periodi estivo-autunnali, mentre quelli di origine nosocomiale non hanno una precisa collocazione stagionale. In Italia, dal 2003 al 2007, i casi di legionellosi sono stati 3865 casi in totale e sono stati segnalati prevalentemente nelle regioni centro-settentrionali.
Legionella è sensibile al cloro, ma poiché i metodi massivi di disinfezione non sono sufficienti per eliminare definitivamente la presenza del microrganismo nelle reti idriche, anche per la potenziale associazione del microrganismo ad amebe, e la disinfezione puntuale senza misure strutturali ha solo un’azione temporanea, è necessario mettere in atto misure specifiche per controllarne la proliferazione negli impianti.
Leptospira
Le leptospire appartengono all’ordine delle Spirochaetales e sono batteri a spire elicoidali del diametro di 0,1 μm e di 6 -12 μm di lunghezza, motili ed aerobi obbligati. Sono parassiti patogeni per l’uomo e per gli animali. Nel genere Leptospira sono state identificate 17 specie che sono state suddivise in specie patogene, non patogene-ambientali ed opportuniste. Tra le specie patogene sono comprese L. interrogans, L. kirschneri, L. santarosai, L. weilii, L. alexanderi, L. borgpetersenii, L. genomospecies 1 e L. noguchii.
La leptospirosi, un’antropozoonosi, colpisce molte specie animali sia domestici sia selvatici in tutto il mondo; l’uomo è un ospite occasionale e finale. Il principale serbatoio dell’infezione è rappresentato dai roditori. L’uomo si infetta, attraverso ferite della cute e delle mucose, tramite contatto diretto o indiretto con animali infetti, acqua, suoli o alimenti contaminati dalle urine degli animali. Sono colpiti dall’infezione prevalentemente agricoltori, veterinari, addetti alla macellazione, o coloro che praticano attività sportive o ricreative in corsi d’acqua contaminati.
Dal momento in cui la Leptospira supera la cute o le mucose, segue un’incubazione di 1 – 2 settimane, con colonizzazione dei linfonodi. Seguono, prima, una fase setticemica in cui la Leptospira si moltiplica nelle cellule del sistema reticolo endoteliale, poi, una fase con localizzazioni viscerali, con lesioni organiche e funzionali a carico soprattutto del rene, del fegato e del sistema nervoso centrale (più raramente). La malattia si manifesta nel 15-40% dei soggetti esposti. La malattia può manifestarsi in forma lieve (leptospirosi anitterica), che rappresenta il 90% delle forme sintomatiche, o grave (morbo di Weil) (5-10% delle forme sintomatiche).
I sintomi della leptospirosi anitterica danno un quadro simil-influenzale con nausea e vomito, iperemia congiuntivele e dolori muscolari. In una percentuale significativa di soggetti si può manifestare meningite che regredisce rapidamente o persiste per settimane o mesi.
Il morbo di Weil inizia con gli stessi sintomi della forma lieve, ma dopo 4-9 giorni si manifestano ittero, compromissione epatica, insufficienza renale, manifestazioni emorragiche ed elevata mortalità. È anche frequente l’interessamento polmonare. I casi di mortalità, se curati in misura adeguata e tempestivamente, si riducono al 10%.
Le leptospire sopravvivono per diversi mesi nell’ambiente, in acqua e nei suoli con pH acido. Non si rilevano in acque disinfettate.
Pseudomonas aeruginosa
È un microrganismo ubiquitario nell’ambiente. È caratterizzato da un’elevata capacità di adattamento. Si rileva in acque superficiali, reflue e marine, suoli, vegetazione e in generale, in ambienti acquatici artificiali e, comunque, in tutti gli ambienti umidi. Inoltre è in grado di crescere in acqua distillata, in cosmetici e di sopravvivere nei disinfettanti a base di ammonio quaternario. Si moltiplica facilmente, raggiungendo concentrazioni elevate, anche nelle acque oligotrofe dove la sua presenza è in ogni modo difficilmente correlabile a quella degli indicatori di contaminazione fecale.
Rappresenta uno dei microrganismi tipici dei biofilm. Infatti, è in grado di aderire a superfici umide o in contatto con liquidi grazie alla produzione, da parte di ceppi mucoidi o non mucoidi, di lipopolissacaridi e glicoproteine extracellulari; le condizioni ambientali sembra possano sostenere un’influenza significativa su quei fattori molecolari necessari alla formazione della struttura.
Essendo un microrganismo prettamente ambientale, è rilevabile anche in acque sotterranee e in acque potabili dove può essere riscontrato in concentrazioni ampiamente variabili. In particolare, è facilmente isolato in condizioni di stagnamento d’acqua ed è in grado di installarsi nelle cisterne, nei cassoni, nei rompigetto dei rubinetti e negli apparecchi per il trattamento domestico dell’acqua raggiungendo anche cariche batteriche elevate. Tuttavia, è anche vero che, come opportunista patogeno, non sembra possa rappresentare un rischio reale per la popolazione sana.
Studi effettuati anche in Italia hanno messo in evidenza la presenza del microrganismo, oltre che in acque superficiali, anche in acque potabili e in biofilm di impianti idrici domestici e comunitari. Nelle acque clorate ad uso ricreativo la presenza di P. aeruginosa è ampiamente documentata ed associata ad un aumentato rischio di contrarre infezioni dermatologiche, soprattutto follicoliti ed otite esterna
P. aeruginosa può risiedere nella cavità nasofaringea e nel tratto digestivo inferiore, ma solo occasionalmente è associato a malattie; è conosciuto principalmente come patogeno
opportunista in pazienti immunocompromessi. D’altra parte, la sua caratteristica di essere multi- resistente agli antibiotici, fa di questo batterio un rischio per la salute soprattutto in ambienti ospedalieri dove può provocare infezioni delle vie urinarie, delle ustioni e delle ferite; può inoltre causare ulcere corneali e cheratiti, setticemie, gastroenteriti nei neonati, ascessi, broncopolmoniti e meningiti; come patogeno opportunista, è anche noto come agente responsabile di infezioni polmonari croniche nei pazienti affetti da fibrosi cistica tra i quali è la causa maggiore di morbilità e mortalità.
È un batterio ambientale che ha un’alta resistenza alla pulitura meccanica e alla pressione così come ai disinfettanti ed antibiotici; è più resistente di Escherichia coli alla disinfezione e, nelle acque disinfettate, è generalmente evidenziato quando la concentrazione di cloro residuo è inferiore a 1 mg/l. È quindi considerato un batterio resistente ai trattamenti chimici con cloro e derivati ed è utilizzato come indicatore della qualità microbiologica dell’acqua potabile a livello della rete di distribuzione e della qualità delle acque imbottigliate, nonché come indicatore dell’efficacia del trattamento di potabilizzazione.
Salmonella
Le salmonelle sono bacilli Gram-negativi, asporigeni, anaerobi facoltativi aapertenenti alla famiglia delle Enterobacteriaceae. Fermentano il glucosio, producendo acido, riducono i nitrati e non producono citocromo-ossidasi. La maggior parte non fermenta il lattosio e, possedendo flagelli peritrichi, sono tutte mobili tranne S. gallinarum-pullorum.
I microrganismi appartenenti al genere Salmonella sono batteri ubiquitari di origine enterica. La loro classificazione, più volte rielaborata, deriva da quelle di Kauffmann-White e di Le Minor ed è soggetta ad aggiornamenti annuali.
Il genere, distinto in due sole specie, S. enterica e S. bongori, comprende sierotipi caratterizzati in base alla diversa composizione di antigeni somatici e flagellari e, in alcuni casi, è anche funzione di specifici caratteri biochimici. Della specie enterica, suddivisa in sei sottospecie, si conoscono più di 2400 sierotipi.
Le salmonelle rappresentano uno dei più comuni agenti eziologici di enteriti a trasmissione fecale-orale. In Italia, circa 20 decessi/anno sono associati a salmonellosi, generalmente segnalati in soggetti di età superiore ai 55 anni.
La gravità delle patologie è in relazione al sierotipo infettante, al numero di microrganismi ingeriti e a fattori di resistenza del soggetto.
Le infezioni provocate da Salmonella si distinguono in forme tifoidee (S. typhi e S. paratyphi, responsabili della febbre tifoide e delle febbri enteriche in genere), in cui l’uomo rappresenta l’unico serbatoio del microrganismo, e forme non tifoidee, causate dalle cosiddette salmonelle minori (come S. typhimurium e la S. enteritidis), responsabili di forme cliniche a prevalente manifestazione gastroenterica.
Le salmonelle non tifoidee, responsabili di oltre il 50% del totale delle infezioni gastrointestinali, sono una delle cause più frequenti di tossinfezioni alimentari nei Paesi industrializzati. Le infezioni da Salmonella spp. possono verificarsi nell’uomo e negli animali domestici (polli, maiali, bovini, roditori, cani, gatti, pulcini) e selvatici, compresi i rettili domestici (iguane, tartarughe d’acqua) e uccelli.
Nelle forme gastroenteriche non tifoidee la sintomatologia appare dalle 6 alle 72 ore successive l’ingestione di alimenti o acqua contaminati. Compare diarrea per 3-5 giorni accompagnata da febbre e dolore addominale. La forma tifoide si manifesta invece dopo un periodo di incubazione di circa 1-14 giorni con una media però di 3-5 giorni. La febbre tifoide è una patologia molto severa che in alcuni casi può portare anche al decesso.
L’ambiente rappresenta un serbatoio di Salmonella; la sua diffusione ambientale è conseguente a contaminazione di origine fecale e serbatoi d’infezione sono rappresentati da animali (avicoli, suini e animali da compagnia) e loro derivati (carne, uova e latte consumati crudi o non pastorizzati).
Nell’ambiente, nonostante condizioni di certo sfavorevoli, legate a fattori di variabilità climatica, di carenza di nutrienti e di competizione biologica, molti fattori giocano un ruolo non trascurabile per la sopravvivenza e la diffusione del microrganismo. Salmonella viene sempre rilevata nelle acque reflue e nei fanghi di depurazione e nessun corpo idrico superficiale, di acqua dolce o marina, è esente dalla sua presenza, come anche evidenziato da numerosi studi svolti in Italia. Nelle acque trattate e disinfettate la presenza di Salmonella è estremamente rara e comunque generalmente da associare a carenze dei processi di trattamento delle acque. La clorazione, infatti, è tuttora considerata un’efficace misura di prevenzione. Le salmonelle comunque, in condizioni ambientali favorevoli, possono sopravvivere per settimane in ambiente idrico e per mesi nel terreno.
Shigella
Shigella è un organismo Gram-negativo, non motile, non sporigeno a forma bastoncellare. Questi batteri, grazie a DNA extracromosomico, sono in grado di penetrare nelle cellule epiteliali. È un proteobatterio del gruppo γ ed appartiene alla famiglia delle Enterobacteriaceae, come Escherichia e Salmonella. Il genere comprende quattro specie – S. dysenteriae, S. flexeneri, S. boydii e S. sonnei – o sottogruppi all’interno dei quali sono distinguibili 12, 11, 18 e 2 sierotipi e sottotipi, rispettivamente.
La shigellosi è considerata una patologia prevalentemente dell’area tropicale in quanto, pur essendo il bacillo cosmopolita, esistono aree geografiche particolarmente a rischio dove basso è il livello delle condizioni igienico-sanitarie. Come per quasi tutte le patologie tropicali, il contagio avviene per consumo di acqua e alimenti contaminati o portando alla bocca mani sporche; è possibile anche il contagio interumano attraverso pratiche sessuali oro-genitali.
Le shigelle sono patogeni intestinali per l’uomo e per gli altri primati e agenti eziologici della dissenteria bacillare. La dose minima infettante è bassa ed è pari a 101-102 organismi. I sintomi dell’infezione possono essere evidenti dopo circa 12-96 ore. Numerosi possono comunque essere i casi asintomatici. La malattia, che ha una durata di circa 4-7 giorni, si manifesta di solito con diarrea, nausea, crampi addominali e vomito. È in genere di limitata gravità (tranne nei soggetti anziani, nei defedati, negli immunocompromessi, nei malati di AIDS e nei bambini), ma la sintomatologia varia a seconda della specie infettante. Infatti, mentre per S. sonnei, la patologia si manifesta con una forma lieve autolimitante, con S. dysenteriae possono manifestarsi processi ulcerativi con conseguente diarrea emorragica e presenza eccessiva di neutrofili nelle feci.
L’isolamento di Shigella da acque superficiali e potabili non è frequente, come anche rilevato da studi svolti in Italia; i membri del gruppo non si riscontrano frequentemente né negli scarichi né in acque fecalizzate. Infatti, il microrganismo risulta essere sensibile alle condizioni ostili del mezzo acquoso, all’antagonismo di microrganismi interferenti e, soprattutto, presenta una particolare sensibilità ai trattamenti di disinfezione.
Vibrio
I vibrioni, batteri Gram-negativi, ossidasi-positivi, asporigeni, motili, aerobi e anaerobi facoltativi, possono manifestare uno spiccato polimorfismo, ma sono generalmente bastoncelli di 2-3 μm di lunghezza e 0,6 μm di larghezza. All’osservazione al microscopio il vibrione del colera presenta una tipica forma a virgola; a volte due o più cellule si possono osservare unite con le curve disposte in senso opposto, così da assumere una conformazione a S, oppure possono essere riunite in catena con aspetto ad elica.
I microrganismi appartenenti al genere Vibrio sono ampiamente distribuiti nell’ambiente acquatico dove la loro presenza è comunque difficilmente correlabile a quella degli indicatori di contaminazione fecale. Infatti, come osservato anche in alcuni studi svolti in Italia, a differenza della maggior parte dei patogeni enterici, che vengono immessi nell’ambiente idrico attraverso gli scarichi, vibrioni possono essere isolati, oltre che da acque reflue, acque marine ed estuariali, anche da acque dolci superficiali non contaminate da scarichi fecali. Aumenti della loro rilevabilità nell’ambiente sono legati a variazioni delle condizioni climatiche e le epidemie di colera in Asia sono state spesso associate a inondazioni stagionali.
I vibrioni, che maggiormente interessano la patologia umana sono rappresentati essenzialmente dalla specie Vibrio cholerae, agente eziologico del colera, malattia caratterizzata nell’uomo da una gastroenterite acuta.
Altri microrganismi appartenenti al genere, quali Vibrio parahaemolyticus, V. vulnificus, V. alginolyticus, fanno parte del gruppo dei vibrioni alofili.
Le acque superficiali (acque marine, estuari, acquitrini e lagune) sono il loro habitat naturale e fattori stagionali e climatici ne influenzano la moltiplicazione e la sopravvivenza che vede anche il susseguirsi di varie fasi di vitalità, compresa quella di VNC, in funzione delle condizioni ambientali. Essi possono rappresentare un rischio prevalentemente per soggetti immunodepressi con manifestazioni diarroiche, infezioni cutanee, otiti e forme setticemiche. In alcuni casi, le caratteristiche di virulenza manifestate da questi batteri possono essere legate alla produzione di strati polisaccaridici che svolgono funzioni di protezione dagli agenti esterni e da fenomeni di fagocitosi svolgendo funzioni di riserva di nutrienti e favorendo l’aggregazione cellulare. È ipotizzabile che il rischio potenziale associato alla presenza di queste specie in acque superficiali può aumentare in relazione ai cambiamenti climatici, al riscaldamento globale ed a un aumentato numero di emergenze ambientali.
Acqua ed alimenti (prevalentemente crostacei e molluschi) sono generalmente implicati nella trasmissione delle infezioni causate dai vibrioni; il colera in particolare è notoriamente associato al consumo di frutti di mare crudi. Della specie V. cholerae sono stati individuati più di 130 sierogruppi e prima del 1992 solo il sierogruppo O1 era stato associato ad epidemie e a casi di colera. Dal 1993 anche biotipi O139/non-O1, rilevabili frequentemente nell’ambiente acquatico, sono stati segnalati come responsabili di patologie simil-coleriche, di manifestazioni cliniche riconducibili ad infezioni localizzate nei tessuti molli e nelle mucose e ad infezioni sistemiche.
Vibrio cholerae non è emolitico, tranne gli stipiti El Tor che producono una emolisina solubile. Non resiste né al calore – viene, infatti, ucciso in 15 ÷ 20 minuti a 55 °C – né agli altri agenti fisici ed ai comuni disinfettanti. È molto sensibile agli acidi dai quali viene distrutto rapidamente, ma resistente a condizioni alcaline. Il biotipo El Tor presenta una maggiore resistenza agli agenti fisici e chimici ed è in grado di permanere più a lungo a livello dell’intestino dei soggetti infettati, che divengono veri e propri portatori sani.
In condizioni sperimentali la resistenza dei vibrioni in ambiente idrico oscilla da un giorno ad un anno; hanno, infatti, una elevata adattabilità alle variazioni climatiche, anche per fenomeni di adesione a superfici, e, grazie a modificazioni genotipiche e fenotipiche, riescono a sopravvivere a lungo nell’ambiente. In condizioni ambientali ostili tendono ad assumere dimensioni ridotte, ovvero, pur restando metabolicamente attivi, possono perdere la capacità di moltiplicarsi tendendo quindi a rimanere vitali ma diventando non coltivabili (VNC).
La presenza di microrganismi appartenenti al genere Vibrio nelle acque potabili è rara; è comunque generalmente segnalata in zone dove la malattia è endemica. La clorazione delle acque è tuttora considerata una efficace misura di prevenzione per il controllo del colera.
Tuttavia è stato osservato che fenotipi rugosi sono in grado di sopravvivere in presenza di 2
mg/L di cloro residuo libero con un tempo di contatto pari a 30 minuti.
Yersinia
Il genere Yersinia è classificato nella famiglia delle Enterobacteriaceae. È un bacillo Gram- negativo, motile a 25 °C ma non a 37 °C. Accanto alle 3 specie storiche – Y. pestis, Y. pseudotuberculosis, Y. enterocolitica – sono oggi descritte altre 8 specie che evidenziano profili biochimico-enzimatici tali da discostarsi dalla specie enterocolitica e proporsi, prima come ceppi “enterocolitica-like”, poi come specie a sé stanti.
I principali serbatoi di diffusione di Yersinia spp. sono animali selvatici e domestici. Mentre Y. pestis è l’agente eziologico della peste bubbonica, trasmesso attraverso roditori e mosche, il maggiore veicolo di diffusione di Y. enterocolitica patogeni sono i maiali, e roditori e piccoli animali lo sono di Y. pseudotuberculosis. Y. enterocolitica patogeni sono stati rilevati nei reflui e in acque superficiali. Al momento, sembra che nelle acque potabili prevalgano ceppi non patogeni di origine ambientale.
Y. enterocolitica è un enteropatogeno per l’uomo e per gli animali, dotato di spiccata attitudine invasiva, che si trasmette attraverso la via fecale – orale, per contatto diretto da persona a persona e per ingestione di acqua e alimenti contaminati. I sintomi sono rappresentati da enterocolite acuta, con diarrea acquosa ed emorragica, che spesso evolve, nei bambini oltre i 5 anni e negli adulti, in un quadro clinico di pseudoappendicite con segni di ileite terminale e linfoadenite mesenterica.
Sebbene nelle acque potabili siano stati rilevati ceppi di Yersinia non patogeni, è stato dimostrato che le acque non trattate da destinare al consumo umano possano comunque rappresentare un via di trasmissione dell’infezione.
Alcuni ceppi e specie di Yersinia sono in grado di replicarsi nell’ambiente anche a temperature al di sotto di 4 °C; sono comunque sensibili ai trattamenti di potabilizzazione, disinfezione compresa.
Protozoi
I protozoi sono organismi unicellulari che possono essere comunemente considerati come la più semplice forma di vita animale. Le patologie ascrivibili a questi patogeni portano ad una significativa morbosità nell’uomo e a costi economici elevati per la comunità.
Le forme infettanti di alcuni protozoi sono escrete con le feci; possono contaminare le risorse idriche impiegate a scopi potabili e l’acqua può quindi rappresentare una via di trasmissione di malattie causate da diversi protozoi.
Amebe a vita libera
Le amebe a vita libera hanno diffusione cosmopolita e sono presenti in tutte le matrici ambientali. In particolare, anche se in realtà è Acanthamoeba spp. il protozoo più frequentemente riscontrato nell’ambiente, amebe ambientali sono state isolate da suoli, sedimenti, polveri, aria, acque reflue, dolci, termali, minerali, trattate e sottoposte a trattamenti di disinfezione (acque potabili e di piscina) e in biofilm. La loro distribuzione e biodiversità nell’ambiente sono fortemente influenzate da temperatura, umidità, pH, salinità, disponibilità di nutrienti e appare chiara l’esistenza di un andamento stagionale della loro abbondanza
nell’ambiente. In condizioni ambientali ostili le amebe producono cisti che excistano solo in condizioni favorevoli liberando trofozoiti. Sopravvivenza e moltiplicazione sono anche condizionate dalla presenza e dalla densità della flora microbica associata.
Delle numerose specie di amebe a vita libera, diverse sono state segnalate in ambienti particolari: torri di raffreddamento, impianti di climatizzazione, deumidificatori, unità di dialisi, unità dentistiche, apparecchi per il trattamento domestico dell’acqua e su lenti a contatto. Studi svolti in Italia hanno messo in evidenza la presenza di amebe a vita libera in acque e biofilm di impianti idrici domestici e comunitari.
Le amebe a vita libera, presentano almeno due stadi di sviluppo: il trofozoite in forma amebica e la cisti. Il trofozoite, forma metabolicamente attiva, si divide per scissione binaria e si nutre di microrganismi, oltre che di alghe e flagellati che, in alcuni casi, riescono a sopravvivere nei fagolisosomi. La struttura delle cisti giustifica la loro elevata resistenza ai biocidi più comunemente usati, ai raggi ultravioletti e alle temperature estreme. Le dimensioni delle cisti sono variabili in relazione alle diverse specie. La loro classificazione tassonomica si basa, generalmente, su osservazioni strutturali delle forme trofozoarie e delle cisti, anche se la variabilità dei parametri morfologici rende l’identificazione assai complessa e, più facilmente, eseguita tramite osservazioni biochimiche e molecolari.
Le patologie correlate alla presenza di amebe anfizoiche sono principalmente associate ai generi Naeglaeria, Acanthamoeba e Balamuthia, mentre Sappinia diploidea, agente eziologico di encefaliti, sembra essere meno virulenta. La dose infettante non è nota anche se è ipotizzabile sia bassa. Individuate nell’uomo e in animali a sangue caldo e freddo, in soggetti malati sono state isolate da ferite, dalla cornea, dai polmoni e dal sistema nervoso centrale, anche se la loro presenza è stata dimostrata anche in individui sani.
Tra gli organismi colonizzatori dei biofilm, le amebe assumono un particolare significato sanitario. Infatti, la loro presenza rappresenta un elemento favorevole per l’instaurarsi di condizioni idonee alla sopravvivenza e alla moltiplicazione della flora batterica presente nella struttura del biofilm. Inoltre, è ormai riconosciuta l’importanza delle amebe come agenti che amplificano la capacità di resistenza di microrganismi autoctoni e patogeni ai trattamenti di disinfezione delle acque. Il caso più documentato è quello riguardante Legionella che sembra sia costantemente associata ad amebe. Questo fenomeno sembrerebbe giustificare le difficoltà che si incontrano nel tentativo di eliminare Legionella dagli impianti di distribuzione dell’acqua potabile da essa colonizzati.
Blastocystis hominis
Per Blastocystis hominis, ameba “atipica”, il ruolo come patogeno è ancora controverso, anche considerando che la dose infettiva sembra possa essere alta. Infatti, se in talune circostanze è stata ritenuta responsabile di un quadro infettivo enterico, più spesso questa ameba è stata interpretata come protozoo saprofita. Sembra si possa comportare quindi da opportunista patogeno (anche se alcuni la considerino solo un saprofita) e solitamente è rinvenibile associata ad altri parassiti anche patogeni o, se osservata da sola, è stato ipotizzato possa essere l’espressione di una pregressa diversificata patologia in sede intestinale. È quindi verosimile ipotizzare B. hominis come colonizzante preferito di un intestino già affetto da altre patologie, più o meno specifiche, sia infettive che non.
Sulla base di quanto emerso dagli studi epidemiologici, diverse potrebbero essere le vie di trasmissione del parassita che, comunque, può essere presente anche in soggetti asintomatici: per contatto diretto da uomo a uomo, attraverso alimenti o acqua contaminata. Sembra evidente che Blastocystis sia più frequentemente riscontrata in soggetti residenti in aree dove le condizioni igieniche e l’igiene personale sono carenti.
I rari casi segnalati in Italia sembrano spesso di importazione da aree endemiche: in soggetti immigrati (soprattutto da Paesi africani e del centro e sud America), oppure in viaggiatori (per turismo, lavoro, volontariato) al rientro da aree ad alta endemia, od infine in bambini adottati, sia provenienti dai più tradizionali Paesi cosiddetti in via di sviluppo, sia provenienti da Paesi extracomunitari dell’Est Europa, ovvero in bambini sovente istituzionalizzati in specifiche strutture di accoglienza. Inoltre, alcuni casi sono stati registrati in pazienti immunocompromessi.
La presenza del parassita nelle acque in Italia non viene determinata di routine e sembra improbabile che possa esistere una correlazione diretta tra il parassita e gli indicatori di contaminazione fecale, quali Escherichia coli ed enterococchi. Infatti, sembra il protozoo si possa ritrovare esclusivamente nell’ambiente sotto forma di cisti resistenti ai fattori ambientali ostili e anche ai trattamenti di depurazione delle acque, disinfezione compresa.
Cryptosporidium
È un protozoo intracellulare di piccole dimensioni (4-6 μm di diametro); phylum Apicomplexa; sottoclasse Coccidia. I criptosporidi causano un’infezione parassitaria di importanza sia medica che veterinaria che colpisce le cellule epiteliali del tratto gastrointestinale, l’epitelio dei condotti biliari e del tratto respiratorio sia dell’uomo sia di oltre 45 specie di vertebrati, tra cui galline e altri volatili, pesci, rettili, piccoli mammiferi (roditori, gatti, cani) e grandi mammiferi (in particolare bovini ed ovini).
Al momento, le specie note sono 20, Cryptosporidium parvum è la principale specie patogena per l’uomo, mentre C. felis, C. muris e C. meleagridis possono causare malattia soprattutto in pazienti immunocompromessi.
La trasmissione è interumana o da animali infetti che eliminano grandi quantità di oocisti con le feci. Diffusa è la contaminazione di alimenti e l’acqua potabile è stata segnalata tra i maggiori veicoli di trasmissione della patologia. Casi ed epidemie di criptosporidiosi, descritti, in anni recenti, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, sono stati spesso associati a contaminazione delle reti di distribuzione dell’acqua, a carenze nei processi di potabilizzazione, e a consumo di acqua superficiale e profonda contaminata e non trattata.
L’infezione è diffusa in tutto il mondo. Oocisti di Cryptoporidium sono state individuate in feci umane provenienti da 50 Paesi diversi presenti nei sei continenti. Nei soggetti sottoposti ad esame parassitologico delle feci che vivono nei Paesi occidentali è stata osservata una prevalenza dell’infezione variante tra l’1% e il 4,5% . Nei Paesi in via di sviluppo la prevalenza si aggira su valori tra il 3% e il 20%.
Il sintomo principale nell’uomo è rappresentato da diarrea profusa ed acquosa preceduta, nei bambini, da anoressia e vomito. Il periodo di incubazione è di 7-10 gg. La diarrea è associata spesso a dolori addominali. Meno frequentemente sono presenti sintomi di malessere generale, febbre, anoressia e vomito. Le infezioni asintomatiche sono piuttosto comuni e costituiscono una potenziale fonte di contagio. I sintomi sono variabili in funzione del livello immunitario basale e nella maggior parte dei soggetti immunocompetenti si risolvono entro 30 giorni, mentre nell’immunocompromesso, la malattia è potenzialmente mortale. Secondo alcuni studi, la criptosporidiosi è responsabile fino al 6% dei casi di diarrea nell’immunocompetente e fino al 24 % dei casi di diarrea in corso di AIDS. Qualora vi sia interessamento delle vie biliari si possono presentare sintomi di colecistite. Si possono riscontrare anche colangite, epatite, pancreatite e malattia o colonizzazione respiratoria.
Le oocisti sono presenti nel 65-97% delle acque superficiali, in laghi, fiumi e piscine; in ambiente umido possono rimanere infettive per 2-6 mesi. In Italia, il parassita è stato rilevato, a concentrazioni variabili, in acque superficiali, reflue, anche trattate, e di piscina.
È nota la resistenza delle oocisti agli stress ambientali e ai trattamenti chimico-fisici comunemente attuati nei processi di potabilizzazione che non riescono quindi a garantire la rimozione dei parassiti da acque contaminate se non con sistemi multibarriera.
Cyclospora
Cyclospora cayetanensis è un protozoo parassita classificato nel phylum Apicomplexa. Le cisti di C. cayetanensis hanno una forma sferica con un diametro tra i 7,5 ed i 10 mm ed una parete di uno spessore di 50 nm. I microrganismi hanno un ciclo di vita intracellulare obbligato all’interno dell’epitelio gastrointestinale dove possono riprodursi sia le forme asessuate sia le sessuate.
L’uomo è l’unico ospite conosciuto. L’infezione ha inizio con l’ingestione delle oocisti attraverso alimenti o acqua contaminata; una volta raggiunto l’intestino ed in presenza di bile, l’oocisti excista e rilascia sporozoiti infettanti.
Il periodo di incubazione varia da una a diverse settimane e possono verificarsi infezioni asintomatiche; la trasmissione interumana sembra poco probabile. La sintomatologia può variare significativamente in funzione dell’età e della condizione dell’ospite; mentre la dose infettiva che dà origine alla malattia non è nota. La malattia si manifesta con diarrea acquosa, perdita di appetito, perdita di peso, crampi addominali, flatulenza, nausea, fatica e febbre.
La biologia e l’epidemiologia di C. cayetanensis non sono ancora ben individuate; il primo caso di malattia nell’uomo è stato riportato in letteratura nel 1979.
Cyclospora è in grado di persistere sia in acqua sia in alimenti ed il consumo di alimenti contaminati è alla base dei 90% dei casi riscontrati negli USA.
Le oocisti di Cyclospora sono resistenti al cloro e alla maggior parte degli disinfettanti chimici. Per garantire la rimozione dei parassiti da acque contaminate è necessario fare ricorso a sistemi multibarriera.
Entamoeba histolytica
Le cisti di E. histolytica, protozoo parassita, sono sferiche, hanno un diametro 11-17μm, e contengono 4 nuclei, quando mature. Mantengono a lungo il potere infettante e resistono alla disinfezione delle acque. Se ingerite attraverso alimenti o acqua contaminata da feci umane, rilasciano nell’intestino diverse piccole amebe (forma minuta, non invasiva) che si localizzano nel colon, sulla superficie della mucosa, vivendo come commensali, senza causare danno all’ospite. Le amebe si moltiplicano nell’intestino per scissione binaria; durante il passaggio dal segmento destro a quello sinistro del colon si circondano di una parete resistente all’essiccamento, trasformandosi in cisti (le uniche forme infettanti) che vengono quindi eliminate con le feci solide di soggetti asintomatici. Solo un’infezione su cinque provoca dissenteria amebica (diarrea, febbre con dolori addominali e sangue e muco nelle feci), in relazione a condizioni che riducono le difese dell’ospite (altre infezioni o infestazioni intestinali intercorrenti, malnutrizione, immunodepressione, ecc.). In questo caso il trofozoite assume dimensioni maggiori (forma magna, invasiva), diventa molto mobile grazie all’emissione di pseudopodi, danneggia la mucosa per mezzo di enzimi citolitici determinando la formazione di ulcere “a bottone di camicia”, comincia a nutrirsi di globuli rossi (visibili nel citoplasma) e può invadere diversi tessuti.
Le modalità d’infezione più comuni comprendono l’ingestione di alimenti, verdure e bevande contaminati con cisti di E. histolytica provenienti da feci umane e contatti fecali-orali diretti, ma i focolai di E. histolytica vengono raramente notificati.
I portatori di cisti costituiscono il principale serbatoio infettivo. Generalmente, il periodo d’incubazione è di due-quattro settimane ma può anche protrarsi per mesi o anni. Circa il 10% degli infetti manifesta sintomi clinici. La maggior parte (80-98%) sviluppa colite amebica, con diarrea e dolori addominali, il rimanente 2-20% presenta coinvolgimenti extra-intestinali, comunemente ascessi al fegato. Si stima che i tassi di letalità in presenza di ascessi epatici siano compresi tra lo 0,2% e il 2% negli adulti e siano superiori al 26% nei bambini.
Il parassita è diffuso in tutto il mondo ed è abitualmente segnalato in aree in cui le condizioni igieniche sono precarie. Si stima che il 12% della popolazione mondiale ne sia infettata. La prevalenza dell’infezione è variabile: 1% nei Paesi industrializzati, tra il 50 e l’80% nei Paesi tropicali, dove l’acqua è il veicolo di trasmissione più diffuso. L’amebiasi è raramente registrata in Europa occidentale ed è presente nel sistema di notifica obbligatoria di solo sei Paesi.
L’Italia è stata, fino a pochi decenni fa, area endemica per diversi parassiti, tra cui Entamoeba histolytica. Negli ultimi decenni, il miglioramento del tenore di vita e delle condizioni igieniche della popolazione hanno portato ad un notevole decremento delle malattie parassitarie endemiche in Italia. Tuttavia, negli anni più recenti, il problema delle parassitosi sta riemergendo, o emergendo (anche sotto forma di nuove patologie finora sconosciute nei nostri climi), in seguito ai massicci flussi migratori che interessano il Paese.
Nei Paesi dove l’infezione è endemica, la patologia si presenta in modo sporadico, più che epidemico, dal momento che, per lo scarso numero di cisti eliminate abitualmente dal portatore, sarebbe necessaria una contaminazione fecale massiva dell’acqua per dar origine ad epidemie.
Le cisti possono rimanere vitali nell’ambiente anche per mesi in condizioni di temperatura e umidità ottimali, ma sono uccise dall’essiccamento e da temperature superiori a 68 °C. Con i trattamenti di depurazione delle acque possono essere eliminate con l’iperclorazione e con sistemi multibarriera.
Giardia intestinalis
Giardia intestinalis (o lamblia o duodenalis) è un protozoo flagellato, riconosciuto come patogeno per l’uomo dalla metà degli anni ‘60. Ha un ciclo monoxeno che comprende lo stadio di trofozoite (fase attiva e riproduttiva) e quello di cisti (forma di resistenza all’ambiente esterno responsabile del propagarsi dell’infezione).
Le cisti, rilevabili nell’ambiente, possono contaminare le acque e i vegetali, e una volta ingerite e raggiunto l’intestino si aprono e si dividono in due trofozoiti che aderiscono alle cellule della mucosa del duodeno, del digiuno e alla parte alta dell’ileo, continuando a dividersi. Successivamente si trasformano in cisti, circondate da una robusta parete, e vengono espulse con le feci.
La giardiasi è una patologia cosmopolita, ma è più diffusa nelle aree a clima caldo con una prevalenza molto variabile, che può raggiungere anche il 70% della popolazione umana in alcune zone e durante le epidemie. La malattia colpisce prevalentemente i bambini da 1 a 4 anni di età e i giovani dai 20 ai 40 anni. Nei Paesi in via di sviluppo la prevalenza nei pazienti che presentano diarrea è del 20%, mentre nei Paesi industrializzati è variabile dal 3% al 7%. Il parassita è tra i responsabili della “diarrea del viaggiatore”.
Le più comuni manifestazioni della malattia sono diarrea e crampi addominali, ma possono presentarsi anche nausea, vomito, affaticamento, malessere e malassorbimento. L’incubazione dura almeno 7 giorni e, nella maggior parte dei casi, l’infezione si protrae per 2-6 settimane, anche se in alcuni soggetti possono presentarsi episodi ricorrenti, o comunque problemi intestinali, per diversi anni. Nella maggior parte dei soggetti, la malattia è autolimitante e si manifesta prevalentemente nei bambini (che si ammalano 3 volte più degli adulti).
In Italia è presente in almeno il 3% della popolazione affetta da enteriti.
Indagini svolte in Italia hanno evidenziato che Giardia è presente, a concentrazioni variabili, in acque superficiali, reflue e trattate, su vegetali irrigati con acque reflue e di pozzo e viene riscontrata più frequentemente, e in densità maggiori, rispetto a Cryptosporidium.
Le cisti di Giardia sono resistenti al cloro e alla maggior parte degli agenti disinfettanti. Per garantire la rimozione dei parassiti da acque contaminate è necessario fare ricorso a sistemi multibarriera.
Virus
L’elevata incidenza delle infezioni virali diffuse attraverso l’acqua è dovuta alle caratteristiche dell’infezione che provoca l’escrezione di grandi quantità di particelle virali da parte dei soggetti infetti; a questo si aggiungono la bassa carica infettante e la resistenza tipica dei virus alle condizioni ambientali avverse e ai trattamenti di potabilizzazione, sia chimici sia fisici.
L’impatto delle infezioni virali viene ulteriormente aggravato dalla presenza di vie di trasmissione secondaria e terziaria, diverse dall’acqua che rappresenta una delle via principali di diffusione dell’infezione. Inoltre, gli studi epidemiologici sulle infezioni virali sono complicati dalla presenza di soggetti infettati asintomatici, particolarmente i bambini, che eliminano virus come i soggetti sintomatici.
I virus che sono in grado di moltiplicarsi nel tratto gastrointestinale dell’uomo o degli animali sono comunemente conosciuti come “virus enterici”. Tra questi sono stati descritti più di 140 differenti tipi sierologici e molti sono stati associati ad epidemie trasmesse attraverso l’acqua.
I virus enterici responsabili di epidemie di origine idrica comprendono gli adenovirus, gli enterovirus, i virus dell’epatite A e dell’epatite E, i norovirus,e i rotavirus. Sono RNA- o DNAvirus e la loro grandezza oscilla tra 20 e 100 nm.
La panoramica delle specie virali che possono essere riscontrate nell’ambiente è ampia e, nonostante tutto, sicuramente incompleta. Non sono normali costituenti della flora intestinale; sono esclusivamente patogeni e vengono pertanto eliminati solo da soggetti infetti. È quindi ovvio che, nonostante nelle feci delle persone infette raggiungano anche concentrazioni di 1011 pfu/g, nei liquami e nelle acque essi siano in densità inferiori ai batteri che normalmente vengono utilizzati come indici di contaminazione fecale che non sono quindi in grado di segnalarne la presenza anche perché più sensibili ai fattori ambientali ostili e ai trattamenti a cui vengono sottoposte le acque.
Adenovirus
Patogeni emergenti, appartengono alla famiglia Adenoviridae e comprendono 4 diversi generi e 51 sierotipi noti come adenovirus umani divisi in sei gruppi (A-F) sulla base delle loro caratteristiche biologiche, fisico e chimiche. Sono virus a DNA, di dimensioni 75-100 nm con simmetria icosaedrica (252 capsomeri), privi di involucro pericapsidico; esoni, pentoni e fibre rappresentano i tre antigeni principali; molto resistenti ad agenti fisici e chimici, resistono a lungo nell’ambiente.
Gli adenovirus umani sono associati ad un ampio spettro di condizioni cliniche che comprendono patologie dell’apparato respiratorio (malattia acuta respiratoria epidemica, faringite acuta febbrile, faringo-congiuntivite febbrile, polmonite atipica virale, tracheo- bronchite acuta); patologie oculari (congiuntivite follicolare, cheratocongiuntivite epidemica);
patologie gastroenteriche (gastroenteriti sporadiche ed epidemiche); altre patologie (febbre esantematica, complicanze encefaliche, meningitiche, miocarditiche, pericarditiche, renali ed infezioni delle vie urinarie.
La trasmissione dei virus può avvenire attraverso diverse vie: fecale-orale, respiratoria (inalazione di aerosol), e per contatto diretto. Numerosi dati bibliografici testimoniano il rilevamento di adenovirus in diversi ambienti idrici, dalle acque reflue, alle acque destinate ad uso ricreativo (fiume, mare, laghi, piscine) e persino in acque destinate alla potabilizzazione.
In Italia, esistono scarse informazioni sulla epidemiologia delle infezioni da adenovirus e sulla distribuzione dei sierotipi circolanti nell’uomo, nei pazienti immunocompromessi e nell’ambiente.
Molto resistenti nell’ambiente ed ai comuni trattamenti di disinfezione, sembrano candidati al ruolo di indicatore virale di inquinamento fecale.
Astrovirus
Identificati per la prima volta nel 1975, sono piccoli virus ad RNA a simmetria icosaedrica, il cui nome è riconducibile alla caratteristica forma stellata che alcune particelle virali possiedono quando osservate al microscopio elettronico. Il genere Astrovirus, incluso nella famiglia Astroviridae, comprende 14 differenti specie, 8 delle quali sono responsabili della comparsa di malattia nell’uomo.
La trasmissione avviene prevalentemente per via fecale-orale e il veicolo più comune di diffusione è quello da persona a persona, anche se la presenza di Astrovirus è stata confermata anche in acque potabili trattate.
I virus causano gastroenteriti autolimitanti che si manifestano principalmente in bambini di età inferiore ai 5 anni. Il periodo di incubazione della malattia è solitamente breve (24-72 ore). La malattia esordisce rapidamente ed è caratterizzata da diarrea acquosa della durata di 2-3 giorni sebbene in alcuni casi la sintomatologia può durare anche per 7-14 giorni. Altre manifestazioni cliniche associate sono febbre, nausea, vomito e cefalea. Nei soggetti immunodepressi o con patologie pregresse a carico dell’apparato digerente, la malattia è più severa ed i sintomi si protraggono più a lungo. In talune circostanze la gastroenterite da Astrovirus è associata ad infezioni miste a carico di altri patogeni; non è ancora chiaro il reale significato clinico di tale evenienza in quanto solo raramente essa si accompagna all’intensificarsi del quadro sintomatologico.
I sierotipi 1, 3 e 5 sono i più comuni nel mondo. Nelle regioni temperate sono presenti picchi epidemici nei mesi invernali, mentre nella fascia equatoriale si presentano nella stagione delle piogge. In uno studio condotto in Italia è stato riportato che l’incidenza degli Astrovirus nelle diarree nosocomiali era del 5% in bambini di età compresa fra 0 e 4 anni e che la frequenza era maggiore nei soggetti al di sotto di un anno di età.
Le particelle virali resistono al trattamento con acidi (pH 3), al cloroformio e ad alcuni alcoli, mentre vengono distrutte dall’esposizione a temperature di 60 °C per 10 minuti e a ripetuti scongelamenti. A causa della maggiore resistenza dei virus ai normali trattamenti a cui viene sottoposta l’acqua, i batteri indicatori di contaminazione fecale non sono in grado di segnalare la loro presenza nell’acqua.
Norovirus
I norovirus (conosciuti precedentemente anche come Norwalk-like virus o Calicivirus o piccoli virus strutturati rotondi) sono virus a singolo filamento di RNA, delle dimensioni di
34
27-40 nm, e rappresentano uno tra gli agenti più comuni di AGI di origine non batterica. Sono classificati in cinque diversi genogruppi, denominati da GI a GV, sulla base di analisi filogenetiche; i genogruppi sono ulteriormente suddivisi in 29 cluster genetici a loro volta comprendenti diversi tipi. La trasmissione dei norovirus può avvenire per consumo di alimenti (compresi verdure e frutti di mare) e acqua contaminati, per contatto persona-persona o contatto diretto con superfici contaminate e per inalazione di aerosol. Le particelle virali, essendo acido-stabili, superano la barriera gastrica e raggiungono il piccolo intestino, dove si replicano.
I norovirus sono considerati attualmente patogeni emergenti data la loro grande diffusione in diverse tipologie di ambienti, la capacità di dare luogo ad infezioni clinicamente rilevanti in tutti i gruppi di età e di trasmettersi con diverse modalità, così come l’elevata diversità genetica e la capacità di sviluppare nell’uomo una immunità di tipo breve.
Il virus è altamente infettivo e la dose infettante è di 10 particelle virali. Le infezioni causate da norovirus si manifestano soprattutto in contesti comunitari, negli ospedali, nelle case di riposo, nelle scuole o, tipicamente, in ambienti confinati, come, per esempio, navi da trasporto merci e da crociera. Norovirus associati a malattie trasmesse dall’acqua sono stati rilevati in cisterne, sistemi idrici industriali, piscine a acqua potabile contaminati.
Il serbatoio principale è l’uomo ,ma virus molto simili ai norovirus sono stati identificati in suini e bovini, il che fa supporre la possibilità di trasmissione nell’ambiente anche attraverso contaminazione delle acque con reflui zootecnici.
L’infezione ha un periodo di incubazione di 12-48 ore e si risolve entro 12-60 ore. I sintomi sono quelli comuni alle gastroenteriti, e cioè nausea, vomito, soprattutto nei bambini, diarrea acquosa e crampi addominali.
In qualche caso si manifesta anche febbre; la disidratazione può rappresentare una complicazione più seria per i bambini, gli anziani ed i soggetti con precario equilibrio metabolico o cardiocircolatorio.
Poiché elevata è la loro persistenza nell’ambiente e la loro capacità di resistere ai trattamenti dell’acqua, è necessario applicare rigorose misure sanitarie per prevenire e contenere la loro diffusione.
Enterovirus
Il genere Enterovirus fa parte della famiglia Picornaviridae e comprende 69 sierotipi (specie) che infettano l’uomo. Gli enterovirus devono il loro nome alla particolare tendenza a localizzarsi nell’intestino; molti di essi tuttavia dimostrano uno spiccato tropismo per vari distretti dell’organismo come il sistema nervoso centrale, il fegato, il cuore.
Gli enterovirus sono ubiquitari anche se la loro circolazione è prevalentemente favorita da scadenti condizioni igieniche e socio-sanitarie. Causano una grande varietà di malattie, alcune delle quali particolarmente gravi, come poliomieliti, epatiti, miocarditi, meningiti. Una larga parte delle infezioni da enterovirus decorre tuttavia in modo asintomatico, soprattutto nei bambini, e questo favorisce la diffusione ambientale di questi agenti etiologici rendendo difficile il controllo ed impossibile l’eradicazione delle infezioni.
Gli enterovirus sono stati rilevati in concentrazioni significative anche in acque da destinare al consumo umano e potabilizzate, oltre che in acque superficiali dolci e marine.
Per la loro capacità di sopravvivere nell’ambiente e di resistere ai trattamenti a cui viene sottoposta l’acqua, è necessario applicare rigorose misure sanitarie per prevenire e controllare la loro diffusione.
Virus dell’epatite A
L’epatite causata da virus A (HAV) è una malattia antichissima, descritta sin dai tempi di Ippocrate; tuttavia solo nel 1973 è stato possibile individuare al microscopio elettronico, nelle feci di volontari infetti, particelle virali di 27 nm.
Il virus A è stato allora classificato come Enterovirus 72 e, come tutti gli altri enterovirus, è costituito da un singolo filamento di RNA protetto da un rivestimento proteico, il capside, costituito da quattro principali polipeptidi, Vp1, Vp2, Vp3, Vp4.
Il capside è icosaedrico, a simmetria cubica, formato da 32 subunità o capsomeri. Attualmente i dati in letteratura riguardanti l’isolamento del virus A dall’ambiente idrico non sono molti perché sussistono difficoltà tecniche per il suo rilevamento. È comunque riconosciuto che la presenza del virus in acque superficiali è uno dei più gravi problemi di sanità pubblica ove vi sia la possibilità di utilizzo di tali acque a scopo potabile o per l’irrigazione di colture di ortaggi o, come nel caso delle acque di mare, per l’allevamento di molluschi eduli.
L’epatite A è un’infezione endemica in tutto il mondo, con manifestazioni epidemiche soprattutto dove le condizioni igienico-sanitarie sono carenti. È il più comune tipo di epatite riportato in Italia dove la malattia è endemica soprattutto nelle regioni meridionali in associazione a particolari abitudini alimentari e stili di vita.
Ha un periodo di incubazione di 15-30 giorni e la malattia acuta è caratterizzata da ittero. Tuttavia l’infezione decorre asintomatica nel maggior numero dei casi, in particolar modo nei bambini, risultando così favorito il contagio interumano; infatti anche in caso di decorso asintomatico o subclinico gli individui infetti eliminano il virus con le feci, contribuendo alla sua circolazione ambientale. A livello epatico, l’epatite A determina un’incapacità del fegato di eliminare la bilirubina nel sangue determinando così la formazione di ittero ed urine scure.
Dopo un periodo relativamente lungo di incubazione (mediamente 28-30 giorni), la malattia si manifesta in modo improvviso e caratteristico, con sintomi di febbre, nausea, dolore addominale e ittero. Anche se la mortalità è generalmente meno dell’1%, la riparazione dei danni al fegato è un processo lento che può mantenere i pazienti inabilitanti per 6 settimane o più lungamente. Esiste un vaccino costituito da virus inattivato che determina una protezione già dopo 14-21 giorni dalla somministrazione di una singola dose. Una dose di richiamo somministrata dopo 6-12 mesi conferisce una protezione per oltre 10 anni.
Il virus è stabile a pH acido ed è resistente all’etere, caratteristica comune a tutti gli enterovirus, e alla temperatura (alcune ore a 60 °C). Il riscaldamento a 100 °C lo inattiva in 5 minuti, il freddo invece favorisce il mantenimento dell’infettività; infatti, a +4 °C il virus rimane inalterato per mesi, soprattutto in presenza di materiale organico. Anche nei riguardi del cloro il virus dell’epatite A dimostra un comportamento diverso da quello degli altri enterovirus. Data la rilevanza del rischio di trasmissibilità attraverso l’acqua potabile, diversi studi hanno cercato di determinare in modo accurato la resistenza del virus all’azione disinfettante del cloro utilizzando ceppi diversi del virus e differenti metodiche. È stato messo quindi in evidenza che a concentrazioni pari a 2,5 mg/l di cloro attivo, il virus perde la capacità di riprodurre l’infezione.
Virus dell’epatite E
Il virus dell’Epatite E (HEV), virus a RNA, conosciuto come il “virus delle epatiti a trasmissione enterica non-A e non-B”, è responsabile di una forma di epatite epidemica a trasmissione fecale-orale o epatite Indiana. La malattia, autolimitante, si manifesta in una forma di epatite simile a quella dell’epatite A differenziandosi solo per il periodo di incubazione più lungo (40 gg) e per il tasso di mortalità più elevato.
La malattia ha un periodo di incubazione medio di 6 settimane, con un intervallo tra 2 e 9 settimane.
Nei Paesi in via di sviluppo, specialmente in Asia centrale e sud-orientale, nel Nord-Africa, l’epatite E si presenta in forma epidemica a trasmissione idrica. La prima epidemia di origine idrica di epatite E di cui si ha documentazione si verificò nel 1956 a Nuova Delhi. Si ammalarono diverse decine di migliaia di persone e, in quel tempo, sia per i sintomi che per le modalità di insorgenza dell’epidemia, dovuta alla contaminazione dell’acquedotto con liquami, fu ritenuto che si trattasse di epatite A; in Messico, nel 1986, sono stati registrati due episodi epidemici di origine idrica.
Durante un’epidemia verificatasi in Algeria, a causa della contaminazione con liquami del fiume che riforniva di acqua potabile la regione colpita, è stato osservato che l’epatite E, che ha di solito un andamento favorevole, presentava invece un elevato tasso di mortalità, circa il 20%, nelle donne in gravidanza.
Nonostante il numero di casi accertati di epatite E nei Paesi occidentali sia ancora basso, un’indagine compiuta in Spagna ha evidenziato che l’84,2% delle acque di scarico analizzate, durante il biennio 2001-2002, sono risultate positive alla ricerca dell’HEV. Questi dati possono far ipotizzare che la prevalenza delle infezioni dovute a questo virus possa essere sottostimata e si teme un incremento dei casi in seguito a viaggi o all’immigrazione. Tuttavia, alcuni casi sono stati registrati in soggetti non recatesi di recente in zone a rischio in Nord America, Europa, Giappone, Nuova Zelanda e Australia e questo, insieme a dati molecolari e sierologici, ha portato a valutare l’epatite E autoctona, come problema clinico anche in Occidente. Inoltre, in Giappone sono stati identificati casi di infezione contratti attraverso il consumo di carne di maiale. Uno dei soggetti è stato colpito da epatite fulminante.
In Italia, al momento, l’epatite E non rappresenta un problema, tuttavia potrebbe diventare un rischio potenziale perché l’immigrazione da Paesi ad alta endemia può contribuire a introdurre in modo rilevante l’agente eziologico, soprattutto nelle regioni meridionali dove le infezioni fecali-orali rappresentano ancora un evento rilevante a causa di particolari stili di vita ed abitudini alimentari.
I normali trattamenti a cui viene sottoposta l’acqua non sono in grado di eliminare l’HEV; l’OMS consiglia l’uso di concentrazioni di cloro residui superiori a 0,5 mg/L per un tempo di contatto di 30 min.
Rotavirus
I rotavirus hanno un diametro di 70 nm e contengono una doppia catena di RNA protetto da un doppio rivestimento capsidico. Sono stati individuati nel 1973 e suddivisi in vari gruppi (A, B, C) aventi un antigene comune, il Vp6.
I rotavirus di gruppo A (4 sierotipi) sono patogeni per l’uomo e rappresentano la maggiore causa di AGI infantili di origine virale. Sono particolarmente patogeni per i bambini al di sotto dei due anni e, nei Paesi a clima temperato, causano almeno il 50% dei ricoveri ospedalieri per diarrea nei mesi invernali. Possono essere patogeni anche per gli adulti in quanto responsabili, almeno in parte, della cosiddetta diarrea dei viaggiatori.
La principale via di trasmissione del virus è quella fecale-orale, ma la trasmissione può avvenire anche per contatto diretto e per inalazione di aerosol. Inoltre, poiché il virus è stabile nell’ambiente, può avere luogo attraverso l’ingestione di acqua o alimenti contaminati. La diffusione da persona a persona, attraverso la contaminazione delle mani, è comunque, probabilmente, la più diffusa negli ambienti comunitari, in particolare negli asili nido.
L’infezione, che può decorrere anche in modo asintomatico, di solito si manifesta con febbre, vomito e diarrea e una moderata disidratazione che, nei bambini più piccoli, può
essere però rilevante e condurre a morte per disidratazione; i virus, che infettano le cellule dei villi intestinali causando la distruzione del trasporto di glucosio e sodio all’interno delle cellule, sono eliminati in concentrazioni elevate 2-5 giorni dopo l’inizio della diarrea. La malattia acuta ha un inizio brusco con diarrea acquosa severa, febbre, dolore addominale e vomito; la disidratazione e l’acidosi metabolica possono svilupparsi ed il risultato può essere mortale se non adeguatamente trattata. Dal 2006 è stato reso disponibile un vaccino orale che permette di immunizzare i bambini a partire dalla sesta settimana di vita; è stato approvato sia negli Stati Uniti sia in Europa.
Nei Paesi in via di sviluppo la mortalità infantile addebitabile alle malattie gastroenteriche è elevatissima ed i rotavirus giocano un ruolo rilevante. Nei Paesi industrializzati la mortalità infantile dovuta ad infezioni da rotavirus è piuttosto rara, ma l’infezione può dare complicanze anche molto gravi nelle persone anziane e in quelle immunocompromesse.
In uno studio condotto in Venezuela è stato osservato che il 57% dei bambini sotto osservazione eliminava rotavirus durante i primi giorni di vita, sebbene soltanto il 6% presentava diarrea. In un’indagine svolta in Francia, rotavirus sono stati riscontrati nel 29% dei bambini sotto i due anni di età anche se la metà dei soggetti positivi non presentava nessun sintomo. La presenza dei sintomi è proporzionale all’incremento dell’età, infatti la sintomatologia si manifesta nei neonati solo nel 29% dei casi, tra uno e sei mesi nel 50% e tra sette e ventiquattro mesi nel 75% dei soggetti che eliminano il virus.
La circolazione ambientale di questi virus è ampia e per lo più incontrollabile e si comprende quindi quanto facilmente possano essere contaminate le acque. Indagini effettuate di recente con tecniche molecolari, in acque sotterranee e superficiali, hanno messo in evidenza che l’infettività di rotavirus persisteva più a lungo in acque sotterranee, con una riduzione di 3 log dopo 150 giorni; successivamente l’infettività perdurava agli stessi livelli per almeno 7 mesi. Inoltre, sperimentalmente, dopo 120 minuti in acque di falda contenenti 2 mg/l di cloro libero, il rischio infettivo del virus si riduceva di 6 volte.
Alghe e cianobatteri
Le alghe fitoplanctoniche sono organismi vegetali fotoautotrofi e comprendono specie unicellulari, pluricellulari e coloniali. Possiedono plastidi, organuli discoidali che, a seconda delle specie, possono essere, non solo in numero vario, ma presentarsi disposti in modo diverso a pile o nastriformi, oppure trovarsi singolarmente nella matrice cellulare se le dimensioni sono piuttosto grandi. I plastidi contengono clorofilla ed altri pigmenti fotosintetici e sono di fondamentale importanza per lo studio tassonomico. Particolare rilievo assume la determinazione numerica e tassonomica delle alghe appartenenti a specie potenzialmente tossiche ed a specie capaci di produrre sostanze odorigene, nonché la sorveglianza sulla periodicità dei fenomeni di fioritura (blooms), in considerazione del fatto che, con adeguate condizioni ambientali, le alghe possono produrre spessi strati di cellule nei corpi idrici superficiali.
Analogamente alle alghe, i cianobatteri, batteri fotosintetici Gram-negativi, possiedono clorofilla-a, alcuni pigmenti e liberano ossigeno durante la fotosintesi. Caratterizzati da un’elevata variabilità morfologica (forma unicellulare, coloniale, filamentosa) e dimensionale (da organismi unicellulari con diametro <1 μm, a forme filamentose di lunghezza fino a qualche mm), manifestano proprietà fototrofe aerobie o caratteristiche di crescita eterotrofa. Un’ampia varietà di specie è in grado di produrre tossine e, nel mondo, circa il 60% delle indagini svolte su campioni acquatici contenenti cianobatteri ha dimostrato la presenza di tossine.
Lo sviluppo di bloom algali, associato all’aumento delle concentrazioni di nutrienti, è sempre stato osservato in acque superficiali, ma, soprattutto nelle ultime decadi, sono stati registrati fenomeni ricorrenti e massivi. Bloom di specie algali fitoplanctoniche e di macroalghe possono condurre a condizioni di degrado ambientale, con alterazione del colore, modifica della trasparenza e formazione di schiume dei corpi idrici.
Circa 75 specie di dinoflagellati, diatomee, nanoflagellati e cianobatteri sono state segnalate come produttori di tossine, in ambienti marini. Le tossine algali marine possono rappresentare un rischio per la salute dell’uomo. Infatti, concentrate nei frutti di mare, possono di conseguenza, entrare nella catena alimentare; a questi eventi sono associate sindromi quali PSP (paralytic shellfish poisoning), (DSP) diarrheric shellfish poisoning, (ASP) amnesic shellfish poisoning, (NSP) nerotoxic shellfish poisoning e (CFP) ciguatera fish poisoning. Inoltre, le tossine possono provocare dermatiti da contatto in associazione a fioriture di alcune specie di cianobatteri (es. Lyngblya majuscula), o provocare irritazione delle mucose per inalazione di aerosol contenenti dinoflagellati.
Anche nelle acque superficiali da destinare al consumo umano possono presentarsi condizioni favorevoli alla moltiplicazione algale. In particolare, gli aspetti di interesse sanitario possono riguardare lo sviluppo di elevate concentrazioni di cianobatteri che vengono frequentemente riscontrati in bacini lacustri, bacini artificiali e serbatoi naturali dove si manifestano condizioni caratterizzate da alte concentrazioni di nutrienti, elevata irradiazione, alte temperature e bassa turbolenza.
La rilevanza igienico-sanitaria dei fenomeni di diffusione di cianobatteri nelle acque superficiali da destinare al consumo umano è associata alla capacità, da parte di alcune specie, di produrre metaboliti tossici (cianotossine) che possono rappresentare potenzialmente un rischio per l’uomo anche attraverso il consumo di acqua contaminata.
Oltre cinquanta specie di cianobatteri sono ritenute produttrici di tossine e, tra i generi maggiormente responsabili sono segnalate Microcystis, Nodularia, Planktothrix, Anabaena, Aphanizomenon e Cylindrospermopsis.
Le cianotossine ad oggi identificate si differenziano in base al loro meccanismo d’azione in:
- – epatotossine (microcistine e nodularine), con capacità di inibire le fosfatasi PP1 e 2A; l’ingestione sistematica delle tossine è correlata a fenomeni di infiammazione e
degenerazione degli epatociti;
- – neurotossine (anatossine e saxitossine) che, bloccando la trasmissione nervosa attraverso
differenti meccanismi, agiscono sul sistema neuromuscolare;
- – citotossine (cilindrospermopsina) che, inibendo la sintesi proteica, agiscono a livello di
diversi organi bersaglio;
- – dermatotossine (lyngbyatossina A, aplysiatossina e lipopolisaccaridi) che, inibendo la
sintesi proteica, causano irritazioni cutanee e delle mucose.
Le cianotossine presenti in un corpo idrico sono principalmente contenute all’interno delle
cellule produttrici (tossine intracellulari); tuttavia elevate concentrazioni di tossine possono essere rilasciate in acqua soprattutto a seguito di senescenza e lisi cellulare (tossine extracellulari o libere).
Il rischio associato alla presenza di cianotossine nelle acque può essere notevolmente ridotto mediante rimozione o filtrazione delle biomasse algali presenti nelle acque superficiali. Processi di trattamento dell’acqua con agenti ossidanti (cloro od ozono), responsabili di lisi cellulare, possono, tuttavia, favorire il rilascio, in forma libera, degli agenti tossici in acqua.
Oltre alle tossine, i Cianobatteri possono essere produttori di una grande varietà di sostanze, molte delle quali sono dotate di proprietà odorose acute e persistenti che possono rendere l’acqua potabilizzata inaccettabile dal punto di vista organolettico. Altri taxa producono sostanze che
conferiscono odori o sapori particolari all’acqua: Crisoficee, Criptoficee, alcune specie di Dinoficee pigmentate, di Cloroficee e di Diatomee.
È stato più volte evidenziato che i trattamenti convenzionali di potabilizzazione delle acque (coagulazione/filtrazione, filtrazione su sabbia, clorazione) sono in grado di rimuovere soltanto basse percentuali di tossine algali disciolte. L’ozono e il carbone attivo granulare sembrano invece avere una elevata efficacia nella rimozione di cianotossine. Per acque sottoposte a trattamento di potabilizzazione è altresì importante rilevare la presenza di alghe con tendenza alla flottazione, particolarmente difficili da rimuovere nel processo di chiariflocculazione.
Attinomiceti
Sono batteri Gram-positivi aerobi, per lo più saprofiti, appartenenti all’ordine Actinomycetales, ubiquitari, a lenta crescita, in grado di produrre un sottile micelio settato che dà loro una stretta rassomiglianza morfologica con i miceti filamentosi. Si riproducono per frammentazione dei filamenti o attraverso spore asessuate conidiformi in grado di dare origine ad una nuova forma vegetativa.
L’importanza di questo gruppo di microrganismi è indubbia nel campo dell’industria farmaceutica in quanto produttori di una serie di metaboliti secondari utilizzati dall’uomo come antibiotici, antitumorali, antielmintici, immunosoppressori ed antifungini. Altri metaboliti vengono inoltre utilizzati nel campo dell’agricoltura in quanto stimolatori della crescita, antiparassitari ed erbicidi.
Di alcune specie è accertata la patogenicità in relazione a inalazione di bioaerosol contaminati: allergie e risposte infiammatorie possono manifestarsi soprattutto in soggetti immunodepressi in associazione ad esposizione a metabolici tossici. Sono inoltre in grado di modificare le caratteristiche organolettiche dell’acqua, di degradare gli accessori in gomma dei raccordi della rete idrica e, alcune specie, di degradare gli interferenti endocrini.
Nelle acque potabili la concentrazione di attinomiceti varia generalmente da 10 a 103 ufc/100 ml. I generi maggiormente riscontrati nelle acque in rete appartengono ai generi Streptomyces e Nocardia e possono essere diffusi nell’ambiente tramite aerosolizzazione e successivamente inalati. La loro presenza nelle acque potabili non sembra possa rappresentare un rischio reale per la popolazione sana.
Il genere Streptomyces comprende oltre 400 specie, molte delle quali producono antibiotici. Microrganismi aerobi, formano lunghi filamenti che non tendono a frammentarsi. Il micelio aereo ha catene di 5-50 conidi. Essi contribuiscono più di tutti gli altri batteri e funghi alla fertilità del terreno e alla decomposizione delle sostanze organiche, per l’attitudine a demolire proteine, cellulosa ed altri composti quali cere, gomma e paraffina. Rappresentano gli attinomiceti più frequenti nell’acqua.
Nocardia include batteri aerobi a lunghi filamenti facilmente frammentabili, debolmente acido-resistenti, in grado di degradare e utilizzare la paraffina come unica fonte di carbonio. Nocardia asteroides è una specie ubiquitaria presente in particolare nel terreno e nella vegetazione in decomposizione. È responsabile di una malattia del sistema respiratorio, la nocardiosi polmonare, poco comune ma che si presenta in tutto il mondo in qualunque classe di età, anche se la sua incidenza è maggiore tra gli anziani di sesso maschile. Fattori predisponenti la malattia sono le neoplasie linforeticolari, il trapianto d’organo, alte dosi di corticosteroidi o altre terapie immunosoppressive e malattie polmonari, anche se circa la metà dei soggetti può non mostrare patologie preesistenti. La nocardiosi è stata anche riconosciuta come infezione opportunistica in soggetti malati di AIDS in fase avanzata. Altre specie di Nocardia sp., talora, possono provocare infezioni localizzate o, occasionalmente, sistemiche.
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Gli attinomiceti sono largamente diffusi in natura e ubiquitari in tutte le matrici ambientali; sono in grado di sopravvivere ai fattori ambientali ostili e ai trattamenti di potabilizzazione delle acque.
Funghi
I funghi o miceti sono organismi eucarioti, chemiosintetici ed eterotrofi, unicellulari o più spesso organizzati in strutture pluricellulari, che possono raggiungere dimensioni notevoli (da 20 a 50 volte superiori a quelle delle cellule batteriche). Possiedono una parete cellulare rigida composta da chitina e si riproducono con formazione di spore (riproduzione sessuata) e di tallospore e conidiospore (riproduzione asessuata).
La classificazione dei funghi è basata soprattutto sul particolare ciclo vitale, sulla morfologia delle strutture riproduttive e sul tipo di spore prodotte.
In base alla morfologia delle cellule si distinguono: miceti filamentosi, pluricellulari, il cui sviluppo avviene per mezzo di ife con produzione di micelio; funghi dimorfi, i quali possono acquisire l’aspetto filamentoso o di lievito in base a specifiche caratteristiche ambientali, e lieviti, unicellulari, che si riproducono per gemmazione. In quest’ultimo caso, in alcune specie i blastoconidi si staccano dalla cellula madre, mentre in altre rimangono attaccati gli uni agli altri a formare lo pseudomicelio.
I funghi sono largamente diffusi in natura, ubiquitari in tutte le matrici ambientali. Il metabolismo eterotrofo li costringe ad un tipo di vita dipendente da un ospite e, a seconda che il rapporto sia di tipo neutro, di danno o di vantaggio per l’organismo ospite, vengono rispettivamente suddivisi in saprofiti, parassiti e simbionti. In particolare, i saprofiti sono responsabili della degradazione della sostanza organica e possono vivere negli strati superficiali del suolo e negli ambienti acquatici (fiumi, laghi, mari, acque sotterranee, acque contaminate da liquami). Inoltre, possono essere rilevati nelle acque confezionate, nelle acque potabili in rete, dove possono far parte della flora microbica costituente i biofilm, e in acque di piscina contenenti alte concentrazioni di cloro.
Sebbene, i funghi possano produrre effetti dannosi per la salute in relazione a specifiche condizioni di esposizione in ambienti confinati e in soggetti che manifestano particolare predisposizione, è bene ricordare che le cellule fungine sintetizzano endotossine pirogene ed esotossine come metaboliti secondari. Alcune specie fungine sono anche in grado di produrre micotossine che sono in grado di provocare seri effetti sulla salute in seguito ad ingestione, inalazione o a contatto dermico. Tra le micotossine con struttura aromatica e fenolica vi sono quelle che esplicano i maggiori effetti (es., le ben note aflatossine, lo zearalenone e la griseofulvina).
Diversi generi, per trasmissione aerea, possono dar luogo a specifiche patologie allergiche, più frequentemente associate a reazioni di ipersensibilità (riniti allergiche,asma bronchiale, alveoliti allergiche).
La maggior parte dei funghi isolati nelle acque appartiene alla classe dei Deuteromiceti (Funghi Imperfetti). Le loro concentrazioni nelle acque sono molto variabili e possono presentare ampie oscillazioni (valori da 0 ad alcune centinaia/ml) in relazione alle caratteristiche dell’acqua. Alcuni studi hanno dimostrato che i sistemi di distribuzione dell’acqua possono, tramite aerosolizzazione, diffondere nell’ambiente specie fungine potenzialmente allergeniche, tossigene e opportuniste e alcune sono in grado di modificare le caratteristiche organolettiche dell’acqua anche per ossidazione dei materiali di cui sono costituiti i tubi. Alcune specie sono conosciute come fortemente irritanti per la pelle o possono causare infezioni in individui
immunodepressi, malati di AIDS, in coloro che hanno subito trapianti d’organo o soggetti con asma e problemi respiratori.
I generi Penicillium, Trichoderma, e Aspergillus sono quelli maggiormente isolati dalla acque insieme con Absidia, Acremonium, Mucor, e Paecilomyces che comprendono specie anche potenzialmente patogene.
I funghi sono particolarmente resistenti ai trattamenti di potabilizzazione e di disinfezione e nelle acque potabili possono essere ricercati per valutare la qualità dell’acqua erogata e l’eventuale presenza di fenomeni di ricrescita in rete, nonché per verificare l’efficienza del trattamento di potabilizzazione. Infatti, a causa della frammentazione dei miceli e della resistenza delle spore alla disinfezione, molti ceppi presenti nelle acque grezze superano i filtri a sabbia degli impianti di potabilizzazione, colonizzando così i sistemi di distribuzione dell’acqua. I processi di colonizzazione da parte dei funghi non sono inibiti dalle concentrazioni di cloro residuo presenti solitamente nei sistemi di distribuzione, dove piuttosto vanno ad incrementare la richiesta di cloro.
Fonte del dossier: Istituto superiore della sanità